Pala dell’Assunzione della Vergine, 1506
tempera su tavola (500 x 300 cm)- Opera: Pala dell’Assunzione della Vergine, 1506 - tempera su tavola (500 x 300 cm)
- Autore: Pietro Vannucci, detto il Perugino (Città della Pieve, Perugia, 1450 ca. – Fontignano, Perugia, 1523) e scuola (G.B. Caporali?)
- Provenienza dell\’opera: commissionato per l’altare maggiore del Duomo di Napoli dal Cardinale Oliviero Carafa
- Direzione dei lavori: Laura Giusti, Soprintendenza per il B.A.P.P.S.A.D, ora Soprintendenza per il Polo Museale di Napoli. Il restauro è stato affidato a Raffaele Garzone della Tecnireco di Roma.
- Indagini scientifiche:
- Contributo:
- Documentazione Fotografica: Raffaele Garzone
Note storiche
I lavori per il restauro dell’Assunta del Duomo di Napoli, iniziati nel 2001, sono stati conclusi agli inizi di Aprile del 2004. La pala è citata per la prima volta dal Vasari nelleVite ove riferisce che l’artista “dipinse al cardinal Carafa di Napoli, allo altar maggiore, una Assunzione di Nostra Signora e gli Apostoli ammirati attorno al sepolcro”. L’autografia e la datazione dell’opera sono state oggetto di numerose discussioni nella vasta letteratura artistica che prende avvio dalla citazione vasariana e, mentre non se ne discute nella letteratura artistica e nelle guide locali, il dubbio si concretizza nel Cavalcaselle (1864) e nel Venturi (1913) e Gnoli (1923) che ne ritrovano una larga presenza di aiuti. Berenson rivaluta l’autografia negli Indici e Molatoli nel 1960 elimina i dubbi sulla paternità artistica dell’opera pur ammettendo la collaborazione di aiuti, mentre sottolinea la “raffinata policromia originaria”.
Anche sulla personalità del committente non mancano tesi contrapposte; il Vasari si riferisce al Cardinal Oliviero Carafa, mentre C. D’Engenio (1624) riporta il nome di Vincenzo Carafa ed alcuni studiosi ne riprendono l’identificazione successivamente.
La confusione fu definitivamente risolta da Franco Strazzullo (1959) che riafferma, chiarendone i ruoli, l’identificazione con il Card. Oliviero Carafa, rappresentato inginocchiato accanto agli Apostoli. Il confronto con altri ritratti del Carafa riduce altrimenti il dubbio, come appare nell’affresco di Filippino Lippi a S.Maria sopra Minerva, nella Disputa del Sacramento di Raffaello in Vaticano e nella statua orante del cardinale nello stesso Duomo napoletano.
R. De Maio (1968) riferisce che il cardinale doveva aver già superato i settant’anni e che “consentì a farsi ringiovanire dal Perugino”.
Si tratta del potente prelato che comandò l’esecuzione del Succorpo della cattedrale di Napoli, autocelebrandosi e incidendo per sempre nella memoria del popolo il suo ruolo nel trasporto delle reliquie di San Gennaro, avendone perorato l’autorizzazione del papa perché fossero traslate nella sua cattedrale dall’abbazia di Montevergine di cui era abate commendatario, nel 1497.
Il Carafa era uomo d’ingegno e di rara abilità diplomatica: aveva compiuto studi di giurisprudenza ed era stato nominato da Ferdinando d’Aragona, protonotario del regno e presidente del Sacro Regio Collegio.
Era stato eletto arcivescovo di Napoli nel 1458, e di lì a poco aveva ottenuto il galero cardinalizio per intervento diretto del re e si era trasferito a Roma.
Durante il papato di Sisto IV aveva avuto parte attiva nella politica e nelle alleanze con gli stati italiani ed aveva avuto ilo comando della flotta papale nel corso della crociata contro i Turchi mossa dagli Aragonesi e dallo stesso Sisto IV.
Non meno abile fu nell’accumulo di cariche, benefici e prebende che trasmise ai nipoti dopo la sua morte: pur partecipando al movimento per la moralizzazione della Curia, sullo sfondo del riformismo savonaroliano, esprimendosi a condanna contro la simonia, non mosse passo alcuno contro l’abuso nell’accumulo delle cariche da parte dei ministri della Chiesa.
Figura enigmatica e coinvolta in alcuni processi ed accadimenti di rilievo nei rapporti tra il papa ed il re aragonese, tra il papa e le signorie dell’Italia rinascimentale e nella effimera vicenda della spedizione militare di Carlo VIII, re di Francia, per la conquista di Napoli.
Allo scorcio del secolo la sua autorità comprendeva le commende di san Nicola di Casole, di san Giovanni in Lamia nelle Puglie, quella di Cava dei Tirreni e di Montevergine.
Non riuscì nell’ambizioso progetto di ottenere il papato, pur avendo manifestato il suo contro gli eccessi di Alessandro VI alla cui morte il Conclave aveva eletto Pio III Piccolomini e poi Giulio II.
Uomo di cultura e raffinato umanista, il Carafa aveva raccolto nella sua casa al Quirinale una notevole collezione statuaria antica e molte rarità librarie; sapeva scegliere tra gli artisti, ingaggiò Bramante per il chiostro di Santa Maria della Pace e Filippino Lippi per gli affreschi della cappella del patronato familiare in Santa Maria sopra la Minerva.
Sono questi i suoi maggiori interventi, tra numerosi altri, nella committenza artistica romana mentre a Napoli rinnovò il palazzo di famiglia, fondò ospizi e cenacoli, un lazzaretto nell’abbazia benedettina e fece decorare la cappella del Crocifisso in San Domenico.
Nel 1503, essendo morto il fratello Alessandro titolare dell’arcivescovado napoletano, ne riprese il possesso e lo trasmise in seguito ai nipoti Bernardino e Vincenzo.
E’ questo il frangente nel quale si colloca l’incarico al Perugino per la pala dell’Assunta da porre sull’altar maggiore del Duomo.
Il Perugino aveva allora appena licenziato una tavola dello stesso soggetto per la Chiesa dei Serviti a Firenze e l’esperienza non era stata tra le sue glorie se è vero quello che racconta il Vasari a proposito di aspre critiche e di un’infausta accoglienza, tanto acerba da indurre il Vannucci a prendere difesa di se stesso “…ho messo in opera le figure altre volte lodate da voi e che vi sono infinitamente piaciute; se ora vi dispiacciono e non le lodate, che ne posso io?”. Era una dichiarazione di sconfitta, di fatica e di inerzia per l’oramai vecchio maestro.
Il pittore era avviato a ripetersi, le sue risorse inventive si offuscavano, la sua visione pittorica diveniva sempre opiù estranea agli ambienti intellettuali delle capitali artistiche, ma prima di ritirarsi in ambiente provinciale, per isolarsi e immergersi nelle penombre, gli era dato di rispondere alla richiesta del Carafa che aveva frequentato negli anni degli affreschi della Sistina e che gli offriva un’altra scena di primo piano.
A cavallo tra la prima e la seconda età del Rinascimento, il Perugino era stato tra i grandi rinnovatori dell’arte italiana; erede di Piero della Francesca, aveva assunto i paradigmi toscani in materia di rapporti tra spazio misurabile e proporzione commisurata alla figura umana, poi si era rivolto a definirne il rapporto con l’infinito, esprimibile in termini di luce e ombre, nella liquidità e trasparenza dei paesaggi, ne aveva colto la dolce malinconia, le sottili trame appena percettibili, rinunciando alla pressione del sentimento, senza inquietudine, ignaro dei turbamenti o dei drammi che possono sconvolgere l’ordine universale.
L’Assunta di Napoli propone uno schema compositivo classico; nella parte alta del dipinto è collocata la Vergine entro una mandorla con cherubini, ai lati due ordini di angeli musicanti, mentre altri due, nel margine estremo della lunetta reggono la corona. Al centro un paesaggio di colli e di alberi e in primo piano figure di Apostoli e di Santi fra i quali san Gennaro che poggia la sua destra sulla spalla del committente inginocchiato.
Fino al 1744 la grande pala era collocata al centro della grande tribuna dell’altare maggiore e fu rimossa per ordine del cardinale Spinelli per far posto all’Assunta di Pietro Bracci, commissionata nel 1739.
Il Chiarini, in nota al Celano (1856), riferisce le vicende e gli spostamenti successivi del dipinto da un altare all’altro, da una cappella all’altra e le drammatiche condizioni in cui giaceva, citando gli interventi impropri condotti nei ripetuti restauri.
La pala passò nella cappella di san Giovanni in Fonte, annessa alla chiesa di santa Restituta, quindi in sacrestia, alla mercé dell’umidità. Subì quantità di interventi e danni e finì dimenticata (“…anche perché mutata di aspetto per le malvage restaurazioni e per tanta polvere di che era coperta”).
Al tempo di Sisto Riario Sforza, cardinale tra il 1845 e il 1877, la pala fu spostata nella cappella Seripando dove rimase fino al 1960.
Ulteriori puliture e verniciature furono eseguite nel secondo Ottocento da Agostino Guzzi e subito dopo la Prima Guerra mondiale, da Pasquale Chiarello, senza che il dipinto fosse spostato; si trattò ancora una volta di una pulitura e di una verniciatura.
Per la mostra dei Restauri a Napoli del 1960 la pala entrò in cantiere da O.Nonfarmale che operò oltre al restauro pittorico, nel quale fu asportato gran parte del rifacimento barocco, un radicale intervento di risanamento del supporto.
Il catalogo della mostra fornisce gli elementi principali del restauro Nonfarmale e informa essenzialmente sui processi applicati e sugli esiti della rimozione delle larghe ridipinture barocche.
La tavola era stata irrigidita da un pesante sistema di costole lignee che bloccavano sul retro la tavola e avevano favorito la formazione di lesioni verticali e spaccature, talune di alcuni millimetri.
Il colore aveva subito un generale addensamento, la pellicola pittorica era largamente spellata e quindi ridipinta, effetti riconducibili ai lavaggi con soda operati nei secoli.
La sobollitura delle vecchie vernici ha prodotto lo sgranamento e l’addensamento in grumi, a reticolo; intere falde della materia pittorica si è staccata.
La pulitura con decapant e piridina per gli strati superficiali di vernici e di dimetilformamide per liberare le stesure di colore originario dalle sovrapposte velature, ha svelato le cromie e il disegno del Perugino. In più punti le pennellate del rifacimento erano di tale spessore che il restauratore è intervenuto a secco con lo stacco al bisturi di larghe plaghe di materia falsa.
Anche se nel catalogo della IV mostra dei restauri a Napoli vengono descritti solo i danni relativi all’addensamento del colore e le gravi perdite subite, in realtà la pellicola pittorica era stata completamente intaccata, “spellata”, prima di essere ridipinta, effetto evidente dell’uso di un decapante come la soda, in concentrazione energica, tanto da produrre effetti disastrosi su di un dipinto “solido” come l’Assunta.
La testa della Vergine è l’unica parte che abbia conservato gran parte della materia originale; le velature e gli strati superficiali del colore sono praticamente ovunque perduti tanto che in ogni figura è leggibile il disegno preparatorio grigio. Particolarmente intaccato è il campo pittorico del paesaggio e il piano di appoggio delle figure è ridotto al puro stato preparatorio. Dopo aver asportato le vernici risalenti all’intervento di O. Nonfarmale, sono apparse diffuse tracce della ridipintura barocca che si è deciso di asportare, o talora di alleggerire, tramite l’impiego di solventi, evitando l’uso di mezzi meccanici.
L’intervento di risanamento del supporto ligneo effettuato nel 1960 ha dato ottimi risultati e quindi si è deciso di procedere alla revisione del consolidamento ed alla disinfestazione spostando la tavola sul ponteggio. Tutte le operazioni sono state eseguite in loco per evitare di sottoporre la tavola agli effetti degli sbalzi igrotermici.
L’ultima fase del restauro ha provveduto a colmare alcune lacune mediante uno scialbo in tono e alla integrazione pittorica a tratteggio-rigatino, per comporre i volumi e l’unità figurativa di un testo del Perugino che è uno dei capolavori conservati nella cattedrale.
Tenendo conto del disastroso stato di conservazione generale in cui l’opera ci è pervenuta, si tratta tuttavia di un recupero straordinario: dopo l’asportazione delle vernici e dei ritocchi ossidati è stata effettuata un’integrazione pittorica che, per quanto estesa, è basata su metodologie e criteri più affini alla nostra sensibilità.
I Soci A.R.P.A.I. sono stati ricevuti in Cattedrale dal Cardinale Arcivescovo Michele Giordano di Napoli il 5 dicembre 2004 per celebrare la conclusione del restauro.
Note storiche tratte dalla documentazione fornita da: Laura Giusti e Gian Antonio Golin, Archivio A.R.P.A.I.
Note sul restauro tratte dalla relazione fornita da: Laura Giusti